Àrhat Teatro

Intervista a Pierluigi Castelli

Intervista pubblicata sul numero di settembre 2006 di "Qui Bergamo"

Di Anna Donatini

Fotografia: un momento dello spettacolo teatrale "Ararat".Che cosa l’ha spinta ad occuparsi di teatro?

È iniziato tutto trent’anni fa.

In occasione dell’Atelier Internazionale dell’Unesco, svoltosi a Bergamo e promosso dal Teatro Tascabile, ho assistito ad una rappresentazione dell’Odin Teatret di Eugenio Barba: un episodio che mi ha cambiato la vita, dandomi la possibilità di incontrare una forma di teatro che mi ha affascinato e stregato. Pur non avendo compreso una sola parola della lingua parlata dagli attori, sono rimasto colpito da quello che riuscivano a comunicare attraverso la danza, l’energia, l’intensità delle azioni.

Dopo essere rimasto sette giorni letteralmente senza parole, non comunicando con nessuno, ho deciso di iniziare il mio cammino nel teatro dandomi come maestri e riferimenti costanti e Eugenio Barba e Renzo Vescovi del Teatro Tascabile di Bergamo.

Àrhat Teatro è un gruppo di recente formazione; mi racconti qualcosa del suo percorso precedente...

Ho avuto l’opportunità sperimentare la potenzialità dei linguaggi non verbali, fortemente presenti nel cosiddetto terzo teatro, grazie all’esperienza vissuta a Palosco, nella prima scuola elementare sperimentale della provincia, dove mi trovavo in qualità d’insegnante.

Grazie alla lungimiranza e disponibilità di una direttrice illuminata, la dottoressa Livia Giustozzi, insieme ad altri colleghi abbiamo creato Daidalos, un centro di educazione permanente, un’esperienza bellissima durata vent’anni. Insegnavamo teatro ai bambini della scuola e avevamo costituito un gruppo professionale di teatro, composto dai ragazzi che si appassionavano e continuavano a coltivare l’interesse artistico al di là della scuola. Preparavamo spettacoli, organizzavamo momenti d’incontro e formazione con i grandi personaggi del mondo teatrale, tra cui lo stesso Barba e i suoi attori, coinvolgendo tutto il territorio e trasformando Palosco nel centro del "teatro dei ragazzi", ovvero del teatro fatto "da" loro, non "per" loro da attori adulti.

Con il gruppo Daidalos abbiamo intessuto una serie di relazioni internazionali; con orgoglio ricordo che siamo stati, tra l’altro, due volte ospiti ad Hostelbro, nella sede dell’Odin Teatret in Danimarca; abbiamo organizzato cinque edizioni di "Echincanto" un festival internazionale di teatro ragazzi; eravamo curatori della fase interregionale di "Ragazzi in gamba", una rassegna nazionale di Teatro scolastico che ha la sua sede centrale a Chiusi.

Dopo vent’anni i ragazzi sono cresciuti e, per diversi motivi, il gruppo Daidalos si è sciolto.

Così ho deciso di avviare un percorso professionistico con Samuele Farina, costituendo il gruppo Àrhat Teatro.

Cosa significa " Àrhat" e perché ha scelto questo nome?

"Àrhat" è un termine che indica uno stadio del percorso buddista; letteralmente significa "l’ascoltatore della voce", ovvero colui che, ponendosi in ascolto della Voce, assume un atteggiamento di ricerca, proprio come noi ci rapportiamo alla ricerca teatrale. Una ricerca meticolosa, accurata, rigorosa, che si propone di raggiungere un livello di performance in grado di toccare i centri nervosi degli spettatori, per suscitare una serie di domande e di reazioni emotive che prolungano lo spettacolo al di là della sua durata.

La scelta del nome è dovuta ad un suggerimento di Alessandro Gigli, un amico e direttore di "Mercantia", il più grande festival di teatro di strada, che si svolge in Toscana, a Certaldo, nel mese di luglio. Con il gruppo Daidalos abbiamo partecipato a "Mercantia" per tre anni, come Àrhat Teatro saremo ospiti, con "Ararat", quest’estate per il secondo anno consecutivo.

E Samuele Farina? Come si sono incrociate le vostre strade?

Samuele era uno dei ragazzi del laboratorio di teatro che tenevo al Secco Suardo; dopo aver visto uno spettacolo dell’Odin Teatret, ospite a Bergamo nel novembre 2003, ha deciso di diventare un attore e lavorare nel mondo del teatro. Esattamente com’era accaduto a me trent’anni fa. Inizialmente non ho considerato seriamente il suo proposito; tuttavia Samuele ha insistito molto, continuando a chiedermi di lavorare insieme, finché ho acconsentito, decidendo di provare e avviare il progetto Àrhat.

Samuele sta ricevendo una formazione unica, "su misura" per lui...

Senza dubbio. Samuele alterna periodi di apprendimento con me e "momenti perla", cioè lezioni con insegnanti e maestri di fama internazionali che lavorano o hanno lavorato con lui in lezioni individuali, come Augusto Omolù, Jhon KM Jhon, Beppe Chierichetti, Daniele Carnazza, Alessandro Rigoletti.

Dal luglio 2004, per un anno e mezzo, Samuele ha affrontato un intenso lavoro e, a complemento prezioso delle numerose ore di trainig nel silenzio raccolto della sala, ha partecipato a seminari con Eugenio Barba, Francis Pardeilhan, Simone Capula, Alessandro Gigli, Franco Ferramosca, John KM John, Anatoli Lokachtchouk.

Fotografia: l´attore Samuele Farina durante un momento dello spettacolo teatrale "Ararat".Come si spiega la scelta di un tema biblico per lo spettacolo di debutto? È stato un caso?

Innanzitutto esprimo sempre la mia sincera gratitudine al Teatro Tascabile, senza il quale non avremmo mai potuto realizzare né "In…Cantico", lo studio preparatorio, né "Ararat", lo spettacolo finito. Il TTB ci ha ospitato durante i lunghi mesi di preparazione e ci ha dato lo spazio per debuttare a febbraio.

Riguardo al tema devo ammettere che da sempre sono molto affascinato dalle tematiche bibliche, analizzate con una lettura semiotica che lasci intravedere altre possibilità di significato e significante rispetto alla semplice storia che spesso viene data come unica possibile interpretazione. Con "Ararat" è stato un caso; l’idea iniziale era di lavorare sull’arca, intesa come veicolo che permette di trasportare, di tradurre nel senso di "trans-ducere da un luogo ad un altro" una serie di riti, credi, usanze. Successivamente mi sono imbattuto nella traduzione filologica di Erri De Luca della storia di Noè, che a sua volta mi ha rimandato ad altri libri, tra cui un testo di esegesi biblica di Iurgen Ebach, che metteva in luce moltissime possibilità di lettura.

"In...Cantico" era riservato a 13 spettatori e anche Ararat è uno spettacolo per pochi: avete scelto di fare "teatro di nicchia" in ogni senso...

"Ararat" è riservato a un gruppo di 50 persone perché il pubblico si siede dentro l’arca dove si svolge la scena e lo spazio è limitato. La vicinanza stimola l’instaurarsi di un rapporto forte tra l’energia dell’attore e i centri nervosi degli spettatori; il pubblico è scosso, sia grazie alla capacità dell’attore, che durante la sua formazione ha incorporato una serie di tecniche che hanno reso il suo corpo duttile e capace di essere costantemente presente in scena, sia grazie al rapporto prossemico particolare, che permette di enfatizzare tutti i minimi movimenti dell’attore.

Si tratta comunque di un genere di teatro che possiamo definire "di nicchia", non per snobismo, ma perché implica la ricerca profonda di cui abbiamo parlato prima e perché non è facilmente commerciabile, nonostante sia comprensibile e immediato. Per me il teatro non può essere che questo e non avrebbe senso pensare ad un altro genere...

Quali sono i progetti per il futuro?

Dall’11 luglio saremo ospiti di Alessandro Gigli a "Mercantia"; nel frattempo stiamo promuovendo lo spettacolo. Ad ottobre ricomincerà per Samuele un periodo di formazione, al termine del quale si giungerà alla realizzazione di un altro spettacolo e, se tutto va bene, all’allargarsi di Àrhat Teatro. Ci piacerebbe cercare nuovi attori da inserire nel gruppo, formati direttamente da Samuele. Nel contempo continuiamo a condurre altri progetti collaterali come i laboratori teatrali, gli spettacoli nelle scuole, le manifestazioni e per i comuni...

Oggi anche il teatro tradizionale vive un periodo difficile; come potrà essere il futuro per un teatro come questo, di nicchia e di ricerca?

Io voglio continuare il percorso in cui credo fermamente, nonostante sia un percorso di nicchia e non regali gratificazioni economiche; per perseguire il mio obiettivo sono disposto a lavorare anche in altre direzioni per ottenere quel guadagno sufficiente che consente poi di regalarsi il teatro in cui si crede, che ci è necessario.

Se questo tipo di teatro avrà un futuro? Per me è impensabile che possa scomparire; magari finirà il singolo gruppo, ma fino a quando qualcuno sarà interessato a cercare e sperimentare non potrà mai finire. È un po’ come per la ricerca scientifica: è necessaria, fondamentale, utile alla scienza; avviene nel silenzio, lontano dai clamori, priva di riflettori, grazie all’energia e lo sforzo di chi vi si dedica quotidianamente e difficilmente sarà ricompensato dall’apprezzamento del grande pubblico. Come la scienza non potrebbe esistere senza ricerca, così il teatro tout court senza questa forma di "teatro necessario". Qualora si dovesse spegnere la tensione ad indagare, finirebbe anche il senso di essere uomo.

Cosa manca, secondo lei, nella realtà teatrale bergamasca?

Secondo me manca il coraggio di valorizzare alcune realtà che hanno permesso alla città di incontrare i gruppi più importanti della storia del teatro del Novecento, da Peter Brook a Jerzy Grotowski, da Eugenio Barba al Living Theatre, fino a tutti i gruppi italiani più innovativi.

Mi riferisco al Teatro Tascabile e al lavoro di Renzo Vescovi, a cui Bergamo deve molto. Bisognerebbe concedere al Teatro Tascabile almeno gli stessi spazi dati ad altre realtà cittadine, comunque valide e importanti, per dare continuità ai loro progetti e offrire il sostegno della comunità locale.


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Fotografia: un momento dello spettacolo teatrale "Ararat". Fotografia: un momento dello spettacolo teatrale "Ararat".
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Riprese e montaggio video:
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