Àrhat Teatro

Teatro e scuola dagli anni '70 al 2006:
una panoramica al plurale

Attraverso la ricostruzione del suo percorso e a partire dall'incontro con l'Odin Teatret di Eugenio Barba, Pierluig Castelli mette in luce le possibili connessioni fra il teatro che fa riferimento ai grandi maestri del '900 e teatro nella scuola; in particolare si sofferma sull'importanza della regola come fulcro della creatività. Analizza inoltre le possibili problematiche inerenti alla formazione degli insegnanti e all'intervento di operatori teatrali esterni alla scuola.

Intervista tratta dalla Tesi di laurea in Sociologia presentata da Raimondi Amedeo. Relatore: Professor Pozzi Emilio discussa presso Università degli studi "Carlo Bo" di Urbino.

Intervista a Pierluigi Castelli

Vorrei che mi raccontassi la tua esperienza con i bambini all'interno della scuola, iniziata negli anni in cui si parlava ancora molto di animazione teatrale.

Negli anni '70, quando ho iniziato a lavorare nella scuola elementare, lo slancio mi è venuto dal fatto che facessi già teatro fuori dalla scuola. A Palosco c'era una scuola a tempo pieno, la prima della provincia di Bergamo, dove la direttrice didattica mi chiese di progettare un percorso di animazione teatrale. Dunque nel 1975, al mio terzo anno di insegnamento, feci il primo lavoro teatrale.

Visto con il senno di poi, fu soprattutto sperimentare con i bambini la possibilità di rimettere in gioco ciò che avevo provato con gli adulti (oggi l'acriticità di una posizione del genere mi risulta sconcertante), perché si trattò di una ripresa dello spettacolo che avevo messo in scena con il mio gruppo di teatro politico, "L'eccezione e la regola" di Bertol Brecht. Il risultato, sotto il profilo del consenso raccolto, fu notevolissimo; in termini di relazioni stabilite con i bambini (tanto che, con alcuni di loro, sono continuate fino ad oggi) e di relazioni con le famiglie, le quali hanno visto in questo percorso (che oggi non nego, ma verso il quale sono fortemente critico) un momento di lavoro significativo sulle capacità espressive dei bambini.

Il fatto che avessimo portato questo spettacolo a Chiusi, nel Concorso nazionale "Ragazzi in Gamba", e che avesse vinto il premio nazionale ci permise inoltre di creare momenti di rappresentazione sul territorio, non solo nella scuola.

In quel periodo incontrai l'Odin Teatret di Eugenio Barba e i gruppi della ricerca del teatro sudamericano, i Cuatrotablas e il Libre Teatro Libre.

L'impatto più forte l'ebbi con l'Odin quando vidi "Come! And the day will be ours" ("Vieni! E il giorno sarà nostro"), uno spettacolo parlato in una lingua per me incomprensibile (in parte inventata e in parte antico quechua) ma che mi coinvolse emotivamente, sensorialmente e anche sul piano dei contenuti, perché anche a quel livello qualcosa mi arrivò. Ero stato coinvolto soprattutto da quei corpi che "danzavano" con me e mi permettevano di essere attore insieme a loro pur restando comodamente seduto.

L'Odin al termine dello spettacolo consegnava al pubblico un cartoncino dove c'era scritto: "Lo chiamarono Cavallo Pazzo perché aveva scoperto che esistevano due realtà: quella che tu dividi con i tuoi simili e quella che è solo tua personale, dove i cavalli possono danzare come impazziti".

Questa frase, insieme a ciò che avevo vissuto, quando la lessi giorni dopo mi aprì un universo. Cominciai a chiedermi che senso avesse avuto, pensando di portare il teatro nella scuola, lavorare per un anno unicamente sulla realizzazione dello spettacolo e sul testo letterario.

Rivisitai allora quel discorso, che alla scuola superiore si studiava, sul bambino come essere potenzialmente già completo che porta in sé contenuti, significati, sensi; che porta in sé il gioco delle emozioni. Un bimbo che quindi dovrebbe avere, laddove si cercasse di dispiegare un processo di lavoro con lui diverso dalla trasmissione pedissequa del sapere scolastico, la possibilità di far affiorare il suo "essere in nuce".

Questo sia nel momento della relazione con l'altro, sia nel momento suo personale dove "i cavalli possono danzare come impazziti", che all'epoca io "leggevo", con estrema disinvoltura rispetto a oggi, come momento di creatività e di ricerca espressiva fini a se stesse (ci credo ancora in questi termini, ma ora do loro ben altri risvolti).

Forse la questione era quella di scoprire che cosa fosse possibile utilizzare di un certo tipo di teatro per fornire al bambino strumenti diversi, all'interno del percorso educativo, affinché potesse diventare "attore" nel suo quotidiano, scolastico ma non solo.

Innanzitutto io stesso, che ero ancorato all'idea che il teatro fosse "comunicare attraverso la parola", dovevo conoscere quel nuovo tipo di teatro che mi si era disvelato.

Da quel momento il discorso è andato avanti su due piani che si sono trovati in continua interazione, sovrapposizione e intreccio. Da una parte il piano mio, personale, che mi spingeva alla ricerca famelica di conoscenza, a rincorrere in Italia e all'estero tutte le occasioni (spettacoli e seminari pratici) offerte per incontrare questi gruppi.

Contemporaneamente iniziavo a portare questo tipo di teatro nel percorso in atto all'interno della scuola... e a quel punto non poteva più essere un orpello alla programmazione curricolare, ma si candidava a divenire uno dei centri motori del percorso didattico educativo.

Nel 1976 ho incontrato una persona alla quale devo molto, il professor Benvenuto Caminetti (docente di storia del teatro prima all'università di Macerata, poi a Bergamo); uno dei primi a cogliere questa situazione stimolante in funzione della possibilità di inserire all'interno della scuola un curriculum teatrale; che non doveva significare aggiungere un'altra disciplina accanto alle altre e nemmeno attivare l'animazione teatrale come momento del puro uscire dalla routine quotidiana della scuola in nome di una creatività dai connotati troppo indefiniti.

In quegli anni infatti tutto, o molto, era giustificato, con eccesso di semplificazione. "La grammatica della fantasia" di Gianni Rodari, che comprendeva il famoso "binomio fantastico" (costruire un componimento libero partendo da due termini apparentemente inconciliabili, per esempio valigia e coccodrillo), troppo spesso a mio avviso è stata mal utilizzata.

Da lì nascevano, sulla scorta di riflessioni venute successivamente, cose che non avevano alcun senso.

Cominciavo a rendermi conto che la creatività non era la possibilità di raccontare di tutto e di più; certo, era anche andare oltre la routine, ma con un ancoraggio preciso all'interno di una logica e di percorsi che devono avere delle regole. La regola era fondamentale; il problema non era come darla, ma come acquisirla, in questo caso insieme ai bambini.

A che livello si acquisisce un nuovo gioco di regole? Innanzitutto a livello corporeo. Cominciavo a rendermi conto che, a questa cosa informe chiamata animazione teatrale e considerata come la cenerentola delle attività, si poteva far giocare un ruolo diverso, dandole una dignità talmente forte e precisa da arrivare a parlare di curriculum teatrale.

Se questo percorso teatrale aveva una sua valenza in un processo educativo che dovrebbe condurre ad essere costantemente "attori" nella complessa dinamica relazionale che è la vita, allora era un'azione sistematica quella che si doveva sviluppare.

Esattamente come a nessuno verrebbe in mente di insegnare italiano per cinque mesi e matematica per gli altri quattro, io e Velda Noli (insegnante nella mia stessa scuola e poi la compagna con cui ho condiviso tutte le esperienze nell'arco di trent'anni) abbiamo avviato un percorso di animazione lungo tutto l'arco dell'anno. Però ci mancava materiale, per cui abbiamo attinto da quello che conoscevamo: negli anni immediatamente precedenti, nella scuola elementare di Palosco si era tenuto con i bambini un corso di psicomotricità e uno sull'educazione al suono e al ritmo.

Abbiamo quindi inserito nel percorso teatrale momenti psicomotori iniziali, passando poi a intrecci con l'educazione al suono e al ritmo… per arrivare a quella che poteva essere definita (almeno per noi... e per quel tempo) la loro sintesi.

Si trattava quindi di mutuare dal teatro una serie di percorsi di formazione dell'attore (il training per esempio) per delineare percorsi formativi, all'interno del processo educativo del bambino, a partire dal proprio corpo in relazione a ciò che gli stava intorno concretamente... a partire da quello spazio vuoto che era la sala entro cui il laboratorio teatrale si sviluppava.

Dalle frequentazioni sempre più numerose con i gruppi di teatro della ricerca teatrale del '900, ma anche da una miriade di esperienze portate nella scuola grazie alle relazioni che si erano consolidate con i genitori, il territorio e l'università, conoscevamo sempre di più la possibilità di scandagliare l'Io corporeo dell'attore e cercavamo di estrarne l'essenza, la quale aveva in sé il portato educativo che poteva essere utilizzato insieme/con i bambini.

Tutto procedeva per modo empirico, solo dopo molto tempo abbiamo scoperto che questo aveva anche una giustificazione sul piano del pensiero teorico, in Bateson per esempio (come non citare in questo senso il contributo venuto negli anni dal professor Walter Fornasa, attualmente docente di Psicologia dello sviluppo presso l'Università di Bergamo e all'epoca insegnante elementare e nostro collega di percorso nella scuola di Palosco?).

Man mano questo processo andava strutturandosi ci rendevamo conto che non potevamo più lavorare all'interno del laboratorio teatrale in funzione della messa in scena, capivamo che per dare solide basi e dignità a questo percorso lo si doveva svincolare dall'evento. Ciò non significava negarne la possibilità del raggiungimento, ma affermare con forza che ciò che a noi interessava non era lavorare per creare dei piccoli attori in funzione dello spettacolo, e che, dunque, occorreva anche "prendersi il lusso" di non arrivare sempre e comunque all'evento (il processo come centralità); di prodotto teatrale/spettacolo se ne poteva certo parlare, ma al termine di un lungo percorso, finalizzato a conoscere e padroneggiare una qualche forma di "grammatica teatrale" (oggi verrebbe chiamata competenza) sul piano corporeo.

Andavamo lentamente definendo l'ipotesi che se fossimo riusciti a fondare il nostro metodo di lavoro teatrale sul rigore, non sulla rigidità, avremmo compiuto insieme al bambino un atto di, usavamo questo termine forte, "iniziazione": avremmo cioè messo il bambino nelle condizioni di poter agire a partire davvero da sé stesso (contrariamente a quello che accade troppo spesso, quando l'insegnante dice di richiamarsi ai contenuti del bambino ma in realtà li fa coincidere ai suoi fin dal primo giorno di scuola).

Noi partivamo davvero dal sé del bambino: il primo atto necessario per esplorare uno spazio vuoto è camminare, successivamente il bambino avrebbe potuto provare a rotolare, correre, danzare, saltare, comporre immagini con il proprio corpo, comporre in relazione ad altri corpi...; se su questo si inserisce una musica la qualità del movimento cambia... si fa azione... e così via. Allora il bambino si sperimenta davvero. Se c'è questo rigore il bambino comincia a impossessarsi della chiara percezione di essere attore fino in fondo del lavoro all'interno del quale è immerso.

Significa che questo modo di procedere, anche se non va inteso in termini meccanicistici, potrebbe diventare un habitus mentale, che non si riverserà automaticamente sull'apprendimento in classe, ma potrebbe portare a un pensiero che va oltre la classe e rendere i bimbi, potenzialmente, soggetti attivi fuori dalla scuola, capaci di determinare, capaci quindi di cambiare ciò che sta loro intorno.

È incredibile come attraverso affermazioni così semplici si potessero intuire obiettivi così grandi, ma la complessità contiene in sé la semplicità.

Una stanza vuota diventa il centro di una situazione fortemente partecipata sul piano espressivo e il centro dei migliori momenti rappresentativi della condivisione con gli altri, che hanno tutta un'altra valenza rispetto al rappresentare su un palcoscenico.

Quindi la regola non toglieva spazio alla creatività ma semmai amplificava le possibilità espressive e creative...

Secondo me era comprensibile e giustificabile che negli anni '70 uno dei primi obiettivi fosse assolutamente quello di abbattere gli schematismi e scuotere la situazione per aprire dei varchi, costi quel che costi; perciò riconosco la grandezza dei maestri dell'animazione teatrale, è stata una operazione straordinaria. Il loro enorme merito è stato quello di aver posto, legittimamente, la questione di rompere alcune situazioni mummificate portando il discorso del teatro al di là del suo essere "strumento in funzione della esemplificazione didattica".

All'epoca però polemizzavo perché secondo me queste persone non erano attente a ciò che sul piano della ricerca stava avanzando, a questo teatro "altro" che si richiamava ai grandi maestri (Stanislavskij, Mejerchol'd, Grotowski, Barba) da cui era possibile prendere linfa; mi sembrava che l'animazione teatrale fosse un grande movimento di rottura, ma non sapesse darsi prospettive diverse.

A trenta anni di distanza, paradossalmente, si dice che quelle forme di teatro innovatrici non sono più attuali: all'epoca questo teatro era considerato troppo avanzato, mentre oggi si dice che è superato. Lo vedo, invece, come il tipo di teatro che maggiormente ha saputo interpretare il cambio avvenuto via via all'interno della società.

Oggi questo teatro sa dare delle risposte perché ha vissuto in continua attenzione verso ciò che i rapporti sociali ponevano sia sulla scena teatrale che in quella quotidiana (pur se con modalità del tutto uniche e particolari... ma qui si aprirebbe un capitolo di ampie dimensioni).

Noi avevamo cominciato ad intuire quello che oggi è l'assunto di fondo: la regola è l'elemento centrale della creatività. Tuttavia la regola non veniva imposta ma trovata attraverso l'empirismo del provare in situazione. Io non do un'indicazione, ma uno stimolo iniziale, circoscrivo moltissimo l'ambito perché il bambino possa ad un certo punto, tramite l'esplorazione, avvertire la limitazione che l'ambito stesso gli pone.

Quando questi argini gli diventano stretti significa che il bambino ha scoperto le regole che può mettere in atto a livello di quell'ambito. Allora si pone la questione dell'andare oltre; bisogna ampliare l'ambito di esplorazione: è un gioco di cerchi concentrici che a un certo punto, allargandosi, si perdono e diventa enorme la possibilità di farli interagire.

Ma all'interno di ciascun passaggio il bambino ha scoperto la regola.

Naturalmente abbiamo anche prodotto degli spettacoli, però totalmente diversi da quello che di solito si intendeva nella scuola elementare. Erano spettacoli con bambini che, rispetto alla loro età, si muovevano con estrema consapevolezza dello spazio e del proprio corpo. Non erano attori, ma la qualità era quella offerta da corpi-in-vita, la testimonianza di un percorso durato anche tre anni che era stato scoperto, verificato, creato a partire dal corpo in uno spazio vuoto, che aveva affrontato la complessità, e che ora, in scena si poneva "naturalmente in modo complesso" (non certo schiacciato sui canoni della recita/narrazione tradizionale).

Con questi bambini si iniziava a parlare con significato diverso del termine (fin troppo abusato in ambito teatrale, spesso senza la necessaria consapevolezza) "improvvisazione". Non si trattava di improvvisare nel senso di "inventare qualcosa intorno a un tema", perché improvvisare per me è l'azione che solo il jazzista può compiere; ma il jazzista alle spalle ha la conoscenza meticolosa, sistematica e rigorosa del proprio strumento, delle sue potenzialità complesse che deve saper dominare per poter improvvisare (è chiaro che l'attore è il jazzista del teatro).

Al bambino bisogna proporre innanzitutto un metodo di lavoro su cui basare l'eventuale messa in scena (a quel punto non più e non solo riconducibile al copione scritto).

Questo metodo di lavoro, nel momento in cui lo riporti agli insegnanti attraverso i percorsi di formazione, non rischia di essere recepito come una "ricetta" che va semplicemente ritrasmessa agli alunni?

La mia grande paura è che tutto venga preso come una serie di esercizi meccanicamente concatenati uno all'altro, che non possano mai essere invertiti nella loro sequenza, o che all'interno dello stesso esercizio non si possa cogliere la sollecitazione proveniente dal bambino. Questo è un grande pericolo e ho sempre evitato la pubblicazione del mio lavoro perché andrebbe a sancire la possibilità di un utilizzo irreggimentato, mentre rigore significa consapevolezza precisa di ciò che si compie all'interno del percorso e capacità di ricorrere alla parte di materiale più idonea nel momento opportuno e nella situazione adeguata.

Si può solo tentare di ovviare a questo rischio, attraverso l'attivazione di percorsi pluriennali misti (con gli insegnanti e con i bambini). Ogni anno io cerco di disorientare gli insegnanti a cui propongo la formazione, introducendo sfumature diverse per far saltare la lettura di un possibile incapsulamento dell'impianto metodologico e affinché si interroghino fin nelle pieghe su quello che stiamo facendo.

Il docente, laddove decida di gestire il percorso di tipo teatrale che non sia soltanto mettere in scena la storiella di italiano, non può evitare di avere una competenza (non necessariamente di tipo attorale diretta) sull'essenza del percorso teatrale, che nella scuola, ovviamente, è connotato in termini educativi e come processo di crescita del bambino.

Ciò a partire da una considerazione semplicissima: così come quando l'insegnante lavora attorno ad un testo scritto è attento alla grammatica, all'ortografia, alla forma e non accetta la sciatteria, non si capisce perché non debba essere altrettanto attento al componimento corporeo.

Se poi si parla di messa in scena si entra in un altro livello, squisitamente tecnico e specifico... e qui è comprensibile che l'insegnante non necessariamente debba essere regista.

Come ti poni rispetto agli operatori teatrali che entrano nella scuola?

Man mano la nostra metodologia si è andata strutturando, abbiamo partecipato a diversi incontri, organizzati anche dall'università, in cui i teatranti affermavano essere quelli che garantivano il "sapere teatrale"... gli insegnanti dovevano conoscere la pedagogia, le metodologie dell'apprendimento, ma non potevano conoscere anche il teatro. Erano i teatranti, si sosteneva, che dovevano portare il teatro dentro la scuola.

Noi abbiamo criticato con decisione questa posizione perché i teatranti che entravano nella scuola per condurre una decina di incontri al fine di produrre uno spettacolo, fin dal primo momento dovevano necessariamente lavorare sul copione, assegnare le parti, eccetera senza addentrarsi nel processo di preparazione cui ho fatto ampio cenno prima (ancora una volta il teatro visto solo come produzione di spettacolo)

Oggi, purtroppo, è ancora sostanzialmente così! Per motivi economici le scuole possono richiedere solo un certo numero di incontri; io non contesto questo discorso, io contesto che nei pacchetti offerti non vi sia il percorso di laboratorio (siamo ben lungi dal laboratorio teatrale scandito lungo tutto l'arco di un anno scolastico e per più anni! ...idea che ho praticato e che ancora pratico laddove i miei attuali impegni me lo permettono).

Perciò bisogna formare persone che sappiano di teatro agito senza essere necessariamente teatranti, perché i bambini e i ragazzi con cui si lavora non dovranno essere necessariamente attori.

Se gli insegnanti fossero formati in questo senso sarebbero in grado di gestire autonomamente percorsi laboratoriali e di affiancare l'esperto teatrale unicamente in fase di realizzazione della testimonianza/spettacolo.

Io, per esempio, laddove ho condotto prima percorsi pluriennali di formazione degli insegnanti, sono intervenuto sempre solo su un gruppo/classe di bambini, affiancato dal docente che poi avrebbe "trasferito" sulle altri classi; solo in fase di realizzazione della testimonianza finale ci si trova tutti insieme ed io prendo le redini della situazione che competono al regista.

Come si può notare si tratta di un'attività di aggiornamento e formazione diretta, in itinere.

È fondamentale in questo senso che l'esperto che interviene sulle classi sia la stessa persona che ha condotto il processo di formazione degli insegnanti, perché il percorso teatrale non può essere ridotto a una scatoletta di carne che puoi paragonare con un'altra e questi percorsi di lavoro non sono intercambiabili.

Vorrei chiarire che non ho nulla contro i teatranti, ma quando entrano nella scuola devono compiere anche loro un bagno di umiltà e saperne di pedagogia, non quella studiata sui libri, ma conosciuta attraverso il lavoro pratico che si svolge con i bambini.

Ho visto ancora recentemente un attore di teatro chiedere continuamente ai bambini di camminare in una palestra mantenendosi equidistanti uno dall'altro, fermandoli più volte perché sbagliavano e ripetendo loro la consegna (che per altro i bambini, a parole, dimostravano di aver capito benissimo!). Un insegnante mediamente preparato avrebbe saputo che il problema di un bambino di seconda elementare non è capire sul piano del significato delle parole, ma è che il suo corpo non è in grado di conquistare in un quarto d'ora un'esperienza che invece richiede un'evoluzione graduale!

Quindi è certo bene che i teatranti entrino nella scuola, ma laddove intendono gestire anche il percorso laboratoriale non possono non essere competenti sul piano psicopedagogico.

Preferirei però che fossero gli insegnanti a condurlo, perché avendo a disposizione tutto l'anno scolastico possono lavorare in maniera più attenta, con tempi distesi e vedere i loro alunni sotto altri aspetti, anche in termini valutativi.

Riassunto sintetico della tesi

Attraverso una ricognizione storica degli ultimi 35 anni si analizzano i rapporti fra teatro e scuola in Italia, definendo le principali problematiche aperte e le linee di tendenza attuali.

In particolare viene messa in luce l'impossibilità di circoscrivere il binomio teatro-scuola entro facili classificazioni, in quanto l'estrema varietà e fluidità delle esperienze di "teatri" nelle e delle "scuole" rendono questa relazione al tempo stesso complessa e necessaria.

Metodologia seguita
  • Ricerca bibliografica e analisi di testi riguardanti la storia del teatro, la storia del teatro-ragazzi, i percorsi teatrali nella e della scuola, le teorie pedagogiche più recenti.
  • Documentazione scritta e filmata di un percorso teatrale realizzato con due classi quinte di una scuola primaria.
  • Interviste a Claudio Bernardi, Pierluigi Castelli, Loredana Perissinotto, Claudio Raimondo: autorevoli figure che, a vario titolo, fin dagli anni '70 si impegnano attivamente nel settore del teatro-scuola.
Principali risultati raggiunti
  • Definizione dei punti di forza e delle questioni critiche che rendono complesso ma irrinunciabile l'incontro e il confronto fra teatro e scuola.
  • Individuazione di possibili linee di tendenza che potrebbero valorizzare le numerose esperienze teatrali che attualmente vengono praticate nelle scuole italiane.

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